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Le spalle di MARCO
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Le Spalle di MARCO

martedì 16 ottobre 2012

Moral dissuasion/2
di Marco Travaglio


Presto, appena gli avvocati dei 12 indagati li avranno fotocopiati, saranno pubblici gli atti dell'inchiesta appena chiusa dalla Procura di Palermo sulla trattativa Stato-mafia. Comprese le intercettazioni di alcuni protagonisti: quelli che, non essendo parlamentari, possono essere intercettati. A quanto si sa, nel maremagno delle bobine depositate, c'è una telefonata che Nicola Mancino, ministro dell'Interno nel 1992-'93 ai tempi della trattativa, poi presidente del Senato, poi vicepresidente del Csm, ora privato cittadino, fece il 6 dicembre 2011: appena uscì dalla Procura di Palermo dov'era stato sentito come testimone. Evidentemente Mancino si rendeva conto di non aver convinto i pm, che difatti di lì a poco lo indagarono per falsa testimonianza. Dunque chiamò allarmato Loris D'Ambrosio, magistrato, già membro del discusso Alto Commissariato Antimafia ai tempi di Sica, una vita al ministero della Giustizia come consulente di Martelli, vicecapogabinetto di Conso, capogabinetto di Flick, Diliberto e Fassino, poi al Quirinale come consulente di Ciampi e consigliere giuridico di Napolitano. Cosa vuole il privato cittadino Mancino dall'uomo del Colle? Lagnarsi dei pm di Palermo, i quali pretendono addirittura che dica la verità su due vicende cruciali: il suo incontro con Borsellino il 1° luglio '92, annotato dal giudice nell'agenda grigia, ma prima negato da Mancino, poi quasi escluso, infine quasi ammesso ("forse gli ho stretto la mano, ma non l'ho riconosciuto"); e sulla strana cacciata di Scotti, fautore della linea dura con i boss insieme a Martelli, dal Viminale per far posto a lui, Mancino, che non fece nulla contro i negoziati del Ros con la mafia (Martelli giura di averlo avvisato), né contro la revoca di 400 e più 41-bis firmata da Conso. Nella drammatica telefonata a D'Ambrosio, Mancino sembra chiedere aiuto per dirottare l'inchiesta palermitana verso procure da lui ritenute più morbide, Caltanissetta o Firenze. Poi lascia cadere una velata minaccia: si dipinge come "un uomo lasciato solo che va protetto". Si sa come sono gli uomini che si sentono soli: rischiano di doversi cercare compagnia, tirando in ballo "altre persone" (e fa il nome di Scalfaro). Abbiamo chiesto lumi a Mancino, invano. Invece D'Ambrosio ha risposto a Marco Lillo, ammettendo ciò che peraltro non poteva negare, visto che la telefonata è incisa su nastro, e aggiungendo alcuni particolari sconcertanti (intervista a pag. 3). Ma ha taciuto su due questioni decisive: cosa chiese Mancino al Colle? E cosa rispose e/o fece Napolitano? È vero che scrisse al Pg di Cassazione, titolare dell'azione disciplinare? D'Ambrosio dice di non poter rispondere perché vincolato a un inedito segreto presidenziale e perché gli atti del capo dello Stato sono "coperti da immunità". C'è dunque qualche notizia penalmente rilevante? Di certo si sa soltanto che, dopo la telefonata, Mancino si sentì le spalle coperte e, dotato di quei superpoteri, chiamò il procuratore di Palermo Francesco Messineo,
lagnandosi anche con lui dell'operato dei suoi pm. Sarà un caso, ma Messineo ha rifiutato di firmare la chiusura indagini, lasciando soli i suoi pm. Per non lasciare solo Mancino? Ora una risposta del Quirinale s'impone: non per esigenze giudiziarie, ma per la necessaria trasparenza di ogni atto del capo dello Stato. Nessun privato cittadino, a parte Mancino, può chiamare l'Sos Colle per lamentarsi di un'indagine e poi, forte dell'alto viatico, andare a piangere sulla spalla del capo della Procura che indaga. In ogni caso il triangolo telefonico Mancino-D'Ambrosio (Napolitano)-Messineo fa finalmente giustizia della pubblicistica oleografica che dipinge lo Stato da una parte e la mafia dall'altra. In questo momento, un pugno di pm solitari cercano la verità sul più turpe affare di Stato della seconda Repubblica: le trattative fra uomini delle istituzioni e uomini della mafia. Tutti gli italiani onesti sono dalla loro parte. Da che parte sta il Quirinale che dovrebbe rappresentarli?





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mercoledì 17 ottobre 2012


Il Flavio nella manica
di Marco Travaglio


Noi che seguiamo con trepidante apprensione le mosse disperate del nostro amato Silvio accogliamo con sollievo ed esultanza l'ultimo retroscena svelato da La Stampa:
"Il Cav progetta di candidare una folla di imprenditori" e "pare abbia già strappato la disponibilità di Flavio Briatore", anche lui "contagiato dalla voglia di dedicarsi alla cosa pubblica". Era ora. Briatore è proprio quel che ci vuole, anche in vista del "rinnovamento morale" auspicato tanto da B. quanto da Dell'Utri. Preveniamo l'obiezione dei soliti malpensanti: ma Briatore è lo stesso che è indagato a Genova per contrabbando e violazione delle accise sul carburante del suo yacht, ovviamente sequestrato? Certo. Ma proprio qui sta il rinnovamento: nessun politico finora era stato inquisito per contrabbando e violazione delle accise. Briatore andrebbe a colmare il vulnus che privava i contrabbandieri della necessaria rappresentanza. E anche, in un colpo solo, per quella dei biscazzieri e dei truffatori. Pochi ricordano che nel 1984, a soli 34 anni, il giovine Flavio, diplomato ragioniere con una certa fatica nella natia Verzuolo (Cuneo), fu insignito di due mandati di cattura dai giudici di Milano e Bergamo per associazione a delinquere finalizzata alla truffa, cui agilmente si sottrasse fuggendo ai Caraibi. In quel periodo, dopo gli esordi come portaborse di un imprenditore cuneese (ramo vernici)
poi tragicamente saltato in aria nella sua auto, Briatore si arrabatta come assicuratore, maestro di sci e consulente tuttofare in piazza Affari a Milano del conte Achille Caproni (quello degli aerei), ma anche come agente discografico per la Zanicchi e soprattutto giocatore di carte nelle bische clandestine. È lì che s'intruppa in
un'allegra brigata di "spennapolli", specializzata nel reclutare facoltosi "clienti" invitandoli a cene luculliane con la scusa di trattare mirabolanti affari del tutto immaginari o discutere di inviti in tv con Fede. Dopo il caffè partiva l'idea di una "partitella" (ovviamente
truccata) a poker o chemin de fer per spennare la vittima di turno e alla fine spartirsi il bottino: centinaia di milioni di lire a botta. C'erano il conte vero, Caproni, il finto marchese Azzaro, un avvocato da feuilleton, Adelio Ponce de Leon, il vicedirettore del Tg1 Emilio Fede, alcuni cazzari brianzoli che si spacciavano per generali venezuelani, sceicchi arabi, emiri kuwaitiani, ammiragli egiziani, armatori greci. In quella che il giudice istruttore di Bergamo chiama "la banda dei bari", il ruolo del geometra Flavio è decisivo:
aggancia i polli, mette a disposizione il suo lussuoso quanto pacchiano appartamento in piazza Tricolore e "porta una borsa o valigia con gli attrezzi del gioco (carte e sabò truccati) nella casa prefissata". "Il gioco d'azzardo -- aggiunge il giudice -- è terreno esclusivo della criminalità organizzata" e "l'ipotesi che gli imputati abbiano ottenuto l'assenso, l'a ppoggio o la protezione dei clan della malavita organizzata ha trovato parziale riscontro. Sono infatti emersi rapporti del Briatore con Tony Genovese", boss italoamericano, e di altri imputati con Saro Cattafi e con Enea, Monti e Virgilio, la triade della mala milanese. Alla fine, diversamente da Fede (assolto per insufficienza di prove), Briatore si becca in primo grado 3 anni a Milano e 1 anno e mezzo a Bergamo. Ma non fa un minuto di carcere: poco prima dei mandati di cattura è volato a Saint Thomas, Isole Vergini. E lì ha trovato il modo di trasformare in oro anche la latitanza, aprendo alcuni negozi per Benetton, che poi lo lancerà nel mondo della Formula 1. Intanto in Italia lo salva la solita amnistia del 1989. Ce n'è abbastanza per diventare un top manager.
E ora magari un politico, un tecnico del "bene comune". Che gli manca?




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giovedì 18 ottobre 2012



Il sonno della Regione
di Marco Travaglio



Gli italiani, si sa, sono nati per soffrire. Uno su tre chiede aiuto alla Caritas, uno su cinque non arriva a fine mese, tre giovani su tre sono disoccupati, 4 milioni sono precari.
E ora devono pure attendere fino a chissà quando per sapere se il Pd chiederà o no a Massimo D'Alema, la Volpe del Tavoliere, di sacrificarsi ancora una volta per noi e abbassarsi a tornare in Parlamento. Ma si può vivere così, senza un minimo di certezza? Per fortuna, in tanta precarietà, qualche punto fermo rimane. Beppe Pisanu, deputato dal lontano 1972, annuncia che si ricandida (non dice con chi, ma qualcuno che lo mette in lista si trova) perché "una famiglia sarda detiene il record della longevità in Italia e io, politico sardo, voglio battere quello della longevità politica". A spese nostre, s'intende. La lieta novella è stata comunicata alla presentazione del libro di Ciriaco De Mita (che, fra Italia ed Europa, è parlamentare dal 1963), dal titolo decisamente minaccioso: La storia non è finita. E le minacce dilagano, se è vero che Formigoni, che salta da una poltrona all'altra dal 1984, si ripresenterà alle regionali lombarde magari con una lista Forza Forchettoni, con l'aggiunta di una lista Sgarbi, altro nome di cui si sentiva la mancanza. Un genio. Del resto, nel 1993, intervistato dal sottoscritto per il Giornale di Montanelli al Meeting di Rimini, il capo romano di Cl, monsignor Giacomo Tantardini, ebbe a definire il Celeste "l'uomo politico più stupido del mondo" (aveva appena presentato una nuova corrente Dc in società con Vittorio Sbardella, in arte Squalo, noto per i sigari alla Al Capone ma soprattutto per la collezione di avvisi di garanzia). Infatti, nella Prima Repubblica, Robertino era solo uno dei 14 vicepresidenti del Parlamento europeo, mentre nella Seconda è stato governatore di Lombardia per 17 anni. Il sonno della Regione genera mostri. È questa la principale differenza fra Prima e Seconda Repubblica:
non tanto il livello di corruzione, visto che si ruba anche più di prima, quanto il livello di demenza, un'epidemia. L'on. Antonio Mazzocchi del Pdl, questore della Camera firmatario dei bilanci della medesima, patrocina uno stanziamento di5.656.000 euro per costruire un nuovo parcheggio per i deputati davanti a Montecitorio in quanto -- dichiara al Messaggero -- trovare un posto auto in piazza del Parlamento "è davvero un problema", si rischiano persino le multe anche se "i vigili della zona sono molto cortesi e prima di fare la multa ti chiamano e ti dicono di spostare la macchina" e di prendere l'autobus o la metro non se ne parla perché "non prendiamoci in giro: i mezzi pubblici non funzionano" e lorsignori ne sanno qualcosa, visto che allo sfascio del Comune si dedicano con passione da decenni. Ogni volta che aprono bocca, si nota distintamente sullo sfondo una transumanza di 50-100 mila elettori in fuga verso Grillo, o verso l'astensionismo. In piena Tangentopoli i politici di allora, a parte lui e pochi altri del suo livello, s'arrabattavano come meglio potevano per recuperare un minimo di credibilità. Abolirono l'autorizzazione a procedere per indagare i parlamentari. E alzarono dal 50% più uno ai due terzi la maggioranza necessaria per amnistie e indulti, per impedirsi di cancellare Tangentopoli col solito colpo di spugna. E assecondarono i referendum per abolire il finanziamento pubblico dei partiti e cambiare la legge elettorale. Oggi, in piena Ladropoli, non riescono nemmeno a cambiare il Porcellum e bisogna costringerli con la fiducia per votare una legge anticorruzione notoriamente finta, inutile, addirittura favorevole ai concussori. È proprio una questione di principio, anzi di etichetta: se passa il concetto che si deve combattere la corruzione, si crea un pericoloso precedente
.



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venerdì 19 ottobre 2012

Severino Salvatutti
di Marco Travaglio


La legge anticorruzione approvata dal Senato è così anti che manderà in prescrizione un bel po' di processi di concussione: quelli al pubblico ufficiale che chiede tangenti senza violenza o minaccia, ma "per induzione", cioè con le buone maniere ("se non paghi, ti rovino"). Proprio ciò che sono accusati di aver fatto B., Penati, Tedesco e tanti altri politici che non hanno bisogno di puntare la pistola alla tempia di nessuno. Dei 36 processi pendenti in Cassazione per questo reato, con la nuova prescrizione ridotta da 15 a 10 anni, ben 17 si estingueranno entro aprile 2013. E con la prescrizione anche il mostro di Marcinelle diventa un giglio di campo. Ora però la ministra Severino del "governo degli onesti" annuncia: "Subito l'incandidabilità dei condannati". Subito si fa per dire: è una legge delega al governo, che però ha solo 6 mesi di vita, poi ad aprile si vota. E per di più sarà in Gazzetta Ufficiale chissà quando, visto che governo e partiti vogliono emendare la legge appena varata in Senato, così dopo la Camera tornerà a Palazzo Madama. Ma, anche se si facesse in tempo con i decreti delegati, sarebbero in candidabili solo "i condannati definitivi a pene superiori ai 2 anni per reati contro la
Pubblica amministrazione o di grave allarme sociale", tipo mafia e terrorismo. Esclusi dunque finanziamento illecito, reati finanziari e fiscali. Ed escluso pure chi ha patteggiato(il patteggiamento non è equiparato alla condanna). Nel 2008, quando fu eletto l'attuale Parlamento, i pregiudicati erano 22. Uno è morto: Giampiero Cantoni (Pdl, 2 anni per bancarotta e corruzione). Se fosse sopravvissuto avrebbe potuto ricandidarsi: aveva patteggiato e la pena non superava i 2 anni. Vediamo i superstiti, escludendo gli ex radicali Rita Bernardini e Benedetto Della Vedova (cessione di hashish in campagne di disobbedienza civile) e Giancarlo Lehner (diffamazione), non certo indegni di sedere nelle istituzioni. Le maglie della Severino sono talmente larghe che non lascebbero a casa quasi nessuno: o perché la pena non supera i 2 anni, o perché il reato non rientra fra quelli previsti per l'ineleggibilità. Non sarebbe incandidabile Massimo Maria Berruti(Pdl, 8 mesi: favoreggiamento). Non Umberto Bossi (Ln, 8 mesi finanziamento illecito, 1 anno istigazione a delinquere, 16 mesi indultati oltraggio alla bandiera). Non Aldo Brancher (Pdl, 2 anni: ricettazione e appropriazione indebita). Non Giulio Camber (Pdl, 8 mesi: millantato credito). Non Enzo Carra (Udc, 16 mesi: false dichiarazioni al pm). Non Marcello de Angelis (Pdl, 5 anni: associazione sovversiva e banda armata, ma è roba vecchia ed estinta). Non Marcello Dell'Utri (Pdl, 2 anni e mezzo patteggiati: false fatture e falso in bilancio). Non Antonio Del Pennino (Pdl, 2 anni: finanziamento illecito). Non Renato Farina (Pdl, 6 mesi patteggiati: favoreggiamento in sequestro di persona). Non Giorgio La Malfa (6 mesi: finanziamento illecito). Non Roberto Maroni (Ln, 4 mesi: resistenza a pubblico ufficiale). Non Domenico Nania (Pdl, 7 mesi: lesioni). Non Domenico Naro (Udc, 6 mesi: abuso d'ufficio). Non Domenico Papania (Pd, 2 mesi: abuso d'ufficio). Resterebbe fuori Giuseppe Drago (Udc poi Pdl, 3 anni: appropriazione indebita e peculato), ma s'è già dovuto dimettere da deputato perché interdetto dai pubblici uffici. Alla fine la mannaia del "governo degli onesti" si abbatterebbe su tre soli senatori, ovviamente Pdl: Giuseppe Ciarrapico (7 anni e mezzo: ricettazione fallimentare e bancarotta fraudolenta), Salvatore Sciascia (2 anni e mezzo: corruzione) e Antonio Tomassini (3 anni: falso). Con tutto quel che si vede in giro, fanno quasi tenerezza: diamogli la grazia.





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sabato 20 ottobre 2012


Lettera di un tangentaro
di Marco Travaglio


Gentili presidente Monti e ministra Severino, chi vi scrive è un tangentista. Niente di speciale, per carità: un tangentista medio, come ce ne sono tanti, che tira avanti
come può. Una mazzetta oggi, una domani. Una volta le toghe rosse mi han beccato mentre incassavo una mazzetta come assessore comunale e mi han costretto a patteggiare 5 anni per corruzione e concussione, sebbene io -- su consiglio del mio avvocato, che è anche deputato -- mi proclamassi innocente. Impugnai il mio patteggiamento in Cassazione, sperando nella prescrizione, ma quei giudici infami me lo confermarono proprio in extremis. Fortuna che i miei reati (anzi, presunti reati) li avevo commessi prima del 2006, così beneficiai di 3 anni di sconto grazie all'indulto sinistra-destra. Mi rimasero 2 anni, che scontai comodamente in libertà senza passare dal carcere: il giudice mi affidò ai servizi sociali (una visitina ogni tanto a una comunità di ex tossici, che appena mi vedevano ricominciavano a drogarsi), perché diceva che dovevo reinserirmi nella società, anche se io mi sentivo già abbastanza inserito. Appena la mia condanna finì sui giornali, il presidente B. mi notò e mi invitò ad Arcore per propormi una candidatura alle elezioni del 2008: gli si era liberato un posto nella quota condannati, non potendo ripresentare Previti per l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Accettai e fui eletto deputato. Il mio nome era, ovviamente, nei primi posti della lista bloccata, in cambio di una bella sommetta, frutto delle mie vecchie refurtive, e di un certo numero di voti che avevo acquistato da un boss della 'ndrangheta conosciuto casualmente in Regione Lombardia. A Montecitorio, oltre al mio avvocato, incontrai un sacco di colleghi tangentari. Un'allegra rimpatriata. Pensavo di restare lì una ventina d'anni, come si usa, poi purtroppo iniziò a soffiare questo brutto vento di antipolitica. Non vi dico la mia angoscia quando si cominciò a parlare della vostra legge anticorruzione. Già il nome era decisamente brutto e maleaugurante. E poi la sostanza: si parlava di lotta a corrotti, concussori, compratori di voti, riciclatori di mazzette, evasori fiscali, falsificatori di bilanci. C'era addirittura un giornale che raccoglieva firme per spingere. Chissà che mi credevo, non ci ho dormito due notti. Poi il mio avvocato mi ha preso da una parte: "Tranquillo, questa legge la puoi votare anche tu". E io: "Ma poi devo smettere di fare quel che ho sempre fatto". E lui: "No, fidati, puoi continuare come e più di prima. Anzi, nessuno se ne accorgerà più, perché adesso abbiamo la legge anticorruzione e il governo degli onesti". Non ci volevo credere, poi ho controllato: mi son letto bene la legge e ho scoperto che aveva ragione lui. Gl'imprenditori che mi pagano tangenti potranno seguitare a falsificare i bilanci e ad accumulare fondi neri senza pagarci le tasse.
Io, come peraltro ho sempre fatto, dovrò solo stare attento a chiedergli le mazzette gentilmente, senza puntargli il coltello alla gola: così è concussione per induzione, che d'ora in poi sarà addirittura un reato minore, punito non più fino a 12 anni, ma fino a 8, così la prescrizione scatta non più in 15 anni, ma in 10 anni (fosse stato così anche prima, mi sarei risparmiato il patteggiamento). La mazzette dovrò seguitare a reinvestirmele da solo, tanto l'autoriciclaggio continua a non essere reato. E, quando compro voti dal boss, devo stare attento a non pagarli in denaro, ma in favori, così il reato di voto di scambio non scatta. Ecco, signor presidente e signora ministra: io volevo semplicemente ringraziarvi. Mi avevate tanto spaventato, ma poi ho capito che era tutto uno scherzo. Se la lotta alla corruzione è la vostra, ci sto anch'io.
Sapete che già mi sento un po' tecnico anch'io?



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domenica 21 ottobre 2012


Disperazioni spontanee
di Marco Travaglio


Il 18 giugno 2004, nelle dichiarazioni spontanee al processo Sme, era un altro uomo. Fino a notte fonda aveva concordato parola per parola con gli avvocati le cose da dire e soprattutto da non dire. Poi, appena scattò in piedi e impugnò il microfono, lasciò perdere il copione e parlò a braccio. Disse che "la legge è uguale per tutti ma io sono più uguale degli altri perché ho avuto i voti". Aggiunse che mai avrebbe corrotto un giudice con bonifici esteri, potendo "mettere una mano in tasca e tirar fuori i contanti senza lasciare traccia". Un attimo prima che confessasse, Ghedini e Pecorella lo portarono via di peso, con la scusa di "un impegno a Roma col premier greco" (il suo consulente finanziario). L'altroieri, otto anni dopo, nel monologo-bis al processo Ruby, ha letto da seduto con voce monocorde una pappardella scritta da Ghedini e Longo. Limitiamoci all'accusa più grave: la concussione per le telefonate in questura dopo il fermo di Ruby per furto: "Nessuna pressione sul funzionario: ho solo dato e chiesto una semplice informazione... Ero interessato a sapere se vi fosse un problema per l'identificazione della ragazza". Poco prima -- dice lui -- Francesca Loddo l'aveva chiamato a Parigi, dove presiedeva il vertice Ocse, per avvertirlo che Ruby era in Questura senza
documenti, allora lui aveva chiesto alla Minetti "di recarsi in Questura per agevolare l'identificazione". Poi aveva chiamato il capo di gabinetto Piero Ostuni, buttandolo giù dal letto: "Mi limitai a chiedergli se poteva confermare o meno che vi fossero problemi di
identificazione di una giovane egiziana di nome Ruby che mi risultava potesse avere una parentela con Mubarak. Dissi che per agevolare le operazioni di identificazione avevo chiesto al consigliere regionale Minetti di recarsi in Questura... per evitare un incidente diplomatico. Ma non chiesi affatto che la ragazza fosse affidata alla Minetti". Purtroppo la versione di B. è smentita da Ostuni, che nella relazione di servizio annotò le sue parole:- "Sarebbe opportuno evitare che sia trasferita in una struttura di accoglienza (come prevede la legge e come aveva disposto il pm minorile, ndr). Sarebbe meglio affidarla a una persona di fiducia e per questo volevo informarla che entro breve arriverà da voi Il consigliere regionale Minetti che se ne occuperà volentieri". Dinanzi ai pm, Ostuni mette a verbale che "la parola 'minore' non fu pronunziata, anche se era implicito che si trattasse di una minorenne perché si parlò di affido di una persona priva di documenti". Ma la versione di B. è smentita soprattutto da B. che il 19 gennaio 2011, in un video-messaggio, lesse il verbale di Ostuni e non lo contestò, anzi lo confermò: "Vi leggo le risposte del funzionario al pm dove descrive la mia telefonata...- Ma vi pare che questa possa essere considerata una telefonata di minaccia? Tutto ciò è assolutamente ridicolo". Il 26 maggio 2011, a Porta a Porta, B. s'inventò addirittura che fu Ostuni a chiedergli "di inviare una persona maggiorenne e incensurata a prelevare Ruby". Ora i suoi avvocati l'hanno aiutato a scordarsi ciò che aveva già ammesso: e cioè di aver chiesto a Ostuni di affidare Ruby alla Minetti. Anche perché, se tornasse ad ammetterlo, dimostrerebbe che già quella sera sapeva benissimo che Ruby era minorenne (l'affido è previsto solo per i minori). E rafforzerebbe l'altra accusa: induzione alla prostituzione minorile. Insomma, è il caso di dirlo, un casino. Che spiega come mai, nella terza età, B. manifesti sintomi sempre più allarmanti di una sindrome di Stoccolma verso le toghe rosse: elogia Ingroia, stringe la mano alla Boccassini e scherza con entrambi sull'esosità dei suoi avvocati. È l'appello subliminale e disperato di un uomo molto solo:
"Vi prego, salvatemi voi".





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martedì 23 ottobre 2012

Presidente, ci dica
di Marco Travaglio


Otto giorni fa il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, alla scuola dei magistrati di Scandicci, ha reso noto il suo ultimo carteggio con il suo consigliere giuridico Loris D'Ambrosio, che gli aveva scritto una lunga lettera per rassegnare le dimissioni dopo le polemiche seguite alla pubblicazione delle sue telefonate intercettate con Nicola Mancino. Napolitano gli aveva risposto respingendo le dimissioni e scrivendo, fra l'altro,
che alcuni giornalisti e magistrati avevano "tentato di colpire lei per colpire me". Su questo si sono concentrati i titoli e gli articoli dei quotidiani, compreso il Fatto, trascurando un passaggio davvero inquietantedella lunga lettera di D'Ambrosio, datata 18 giugno 2012. È quello in cui, ricordando la sua lunga collaborazionecon Giovanni Falcone prima come membro dell'Alto commissariato antimafia e poi, nel 1991-'92, come consulente degli Affari penali del ministero della Giustizia retti dal giudice siciliano fino alla sua morte, D'Ambrosio scrive a Napolitano: "Lei sa di ciò che ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone. E sa che in quelle poche pagine non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi -- solo ipotesi di cui ho detto anche ad altri -- quasi preso anche dal vivotimore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo
per indicibili accordi. Non le nascondo di aver letto e riletto le audizioni all'Antimafia di protagonisti e comprimari di quel periodo e di aver desiderato di tornare
anche a fare indagini, come mi accadde oltre 30 anni fa dopo la morte di Mario Amato ucciso dai terroristi...". Purtroppo, nel citato libro di Maria Falcone (Giovanni Falcone un eroe solo, ed. Rizzoli, 2012), dei misteriosi"episodi del periodo 1989-1993" che l'hanno "preoccupato" e "fatto riflettere", D'Ambrosio non lascia che labili tracce: là dove descrive la solitudine di Falcone dopo il fallito attentato all'Addaura e le polemiche seguite al suo primo progetto di Superprocura. Però, nella lettera, D'Ambrosio scrive che le sue "ipotesi" Napolitano le conosce ("lei sa"), e non solo lui ("ho detto anche ad altri". Ipotesi strettamente connesse con la trattativa Stato-mafia, al punto di indurlo a sospettare "di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi": da chi
D'Ambrosio temeva di essere stato usato come "scriba"? Non certo da Falcone, che gli affidò la stesura delle leggi antimafia (Superprocura, pentiti, 41-bis e così via) approvate dal Parlamento nel 1991-'92. Dunque dai politici che sedevano sopra di lui in quel periodo, al governo (presieduto da Andreotti) e in Parlamento(presidenti delle Camere erano Napoletano e Spadolini). Ma anche dopo ("protagonisti e comprimari" della politica sentiti in Antimafia).Chi dunque, fra quei politici, usò D'Ambrosio per scrivere cose "utili a fungere da scudo per indicibili accordi"? E chisono gli "altri" a cui il consigliere confidò i suoi sospetti? E perché, quando fu sentito due volte come teste dai pm di Palermo nell'i nchiesta sulla trattativa, non li mise al corrente e anzi negò di sapere qualcosa, visto che addirittura desiderava "tornare a indagare"? E Napolitano, quando D'Ambrosio gli espose le sue ipotesi e poi gliele scrisse nell'ultima lettera gli ha chiesto spiegazioni, dettagli, nomi e cognomi? Delle due l'una: se l'ha fatto (e sicuramente l'avrà fatto, visto che non perde
occasione per dirsi interessato a conoscere tutta la verità sulla trattativa), il presidente dovrebbe precipitarsi in Procura a testimoniare; se invece non l'ha fatto (e noi non vogliamo neppure pensarlo), perché non l'ha fatto?





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mercoledì 24ottobre 2012


Rischi per fiaschi
di Marco Travaglio


A leggere i giornali e a sentire i politici, il giudice Marco Billi che ha condannato i sette membri della cosiddetta commissione Grandi Rischi a 6 anni di carcere per omicidio colposo, per aver disinformato la popolazione de L'Aquila sei giorni prima del terremoto che uccise 300 persone e ne ferì migliaia, è un matto. Ha emesso una "sentenza choc" (Messaggero ),anzi "shock"(Repubblica ) e fatto un "processo alla previsione" (Repubblica ), condannando gli esperti perché "non avevano sfere di cristallo" (Libero ). Poi c'è il Giornale dell'ottimo Sallusti, che non distingue il monocratico dal collegiale: "Giudici da pazzi: è tutta colpa dei sismologi" perché "non leggono il futuro". La sentenza -- sentenzia il noto giurista Cappellini sul Messaggero -- "è una ferita alla logica, al buon senso e allo Stato di diritto". Ed è pure "rischiosa" (Greco, l'Unità), "incomprensibile da un punto di vista scientifico e diseducativa" perché "d'ora in poi "sarà sempre allarme" (Tozzi, La Stampa). E ci lascia "soli di fronte alle emergenze" ( M e ldolesi, Corriere ). Schifani, altro insigne sismologo, parla di "sentenza strana e imbarazzante", mentre il vulcanologo Casini di "follia allo stato puro". Insomma, qui si pretende di
"processare la scienza" e si condanna chi "non ha previsto il devastante terremoto d'Abruzzo" con una "singolare interpretazione del concetto di giustizia" che suscita "lo sconcerto planetario", visto che notoriamente i terremoti non si possono prevedere. Chissà se questi commentatori del nulla (la sentenza non è stata ancora depositata, dispositivo a parte) hanno seguito una sola delle 100 udienze del processo o hanno almeno letto il capo d'imputazione. Perché basta leggere di che cos'erano accusati i sette imputati per capire che a nessun magistrato è mai saltato in mente di accusarli di non aver previsto il terremoto: semmai di aver previsto che il terremoto non ci sarebbe stato, dopo una finta riunione tecnica (durata 45 minuti) a L'Aquila, "approssimativa, generica e inefficace", in cui non si valutarono affatto i rischi delle 400 scosse in quattro mesi di sciame sismico. E, alla fine, di aver fornito "informazioni incomplete, imprecise e contraddittorie sulla natura, le cause, la pericolosità e i futuri sviluppi dell'attività sismica in esame". Così rassicurati, almeno 29 aquilani non uscirono di casa, come sempre facevano negli ultimi mesi, la sera del 6 aprile: e furono sepolti vivi. Che lo scopo della riunione fosse tutto politico e per nulla scientifico, l'aveva confidato a una funzionaria Bertolaso alla vigilia: "Vengono i luminari, è più un'operazione mediatica, loro diranno: è una situazione normale, non ci sarà mai la scossa che fa male". E, prim'ancora che i tecnici si riunissero, dichiarò: "Non c'è nessun allarme in corso". Prima di entrare, Bernardo De Berardinis (un ingegnere idraulico che si vanta della totale incompetenza in materia sismica) già aveva stabilito che "la comunità scientifica conferma che non c'è pericolo: la situazione è favorevole". Nessuno verbalizzò nulla (il verbale, debitamente ritoccato, fu firmato in fretta e furia sei giorni dopo, a sisma avvenuto). All'uscita De Berardinis si superò, dichiarando giulivo che gli aquilani potevano star tranquilli e "bersi un bicchiere di Montepulciano". Eppure, nel verbale postumo, si legge: "Non ci sono strumenti per fare previsioni". Bastava dirlo anche alla gente, magari aggiungendo che L'Aquila è la città più sismica d'Italia, e nessuno sarebbe stato processato. Perché, se non si può prevedere che un terremoto ci sarà, non si può prevedere nemmeno che non ci sarà. Invece proprio questo fecero i sette scienziati: dissero che non ci sarebbe stato alcun terremoto. Cioè non fecero gli scienziati. In perfetta coerenza col paese dei politici che non fanno i politici e dei giornalisti che non fanno i giornalisti.





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giovedì 25ottobre 2012



20 anni di improntitudine
di Marco Travaglio




La prima volta che ho scritto di lui era il 1988.Collaboravo già al suo Giornale, che però era per tutti "il Giornale di Montanelli", come vicecorrispondente da Torino. Ma anche con un settimanale cattolico torinese, il Nostro Tempo: il direttore Domenico Agasso mi fece recensire un libro bianco anche nella copertina, Inchiesta sul signor tv, di Giovanni Ruggeri e Mario Guarino, Editori Riuniti. Il primo libro che raccontava la storia di Vittorio Mangano, lo "stalliere" di Arcore che poi stalliere non era, e di Marcello Dell'Utri, l'uomo che sussurrava ai cavalli e soprattutto al Cavaliere. Quando poi, nell'autunno '93, corse voce che Silvio Berlusconi volesse entrare in politica, ne parlai con Montanelli,
a pranzo. Per spiegarmi che tipo fosse, mi raccontò la storia del mausoleo di Arcore, poi aggiunse: "È tutto vero, purtroppo. S'è fissato con la politica. Dice che il pool di Milano sta per arrestarlo e le sue aziende stanno fallendo per debiti. S'è fissato di fare il premier, ma se un poco lo conosco vuole diventare presidente della Repubblica. Se ci riesce, e lui è sempre riuscito dappertutto, con quali metodi preferisco non saperlo, siamo rovinati. Sia come italiani (ti dico solo questo: Confalonieri lo chiama 'il Ceausescu buono'), sia come giornalisti del Giornale.
Mi ha già detto che ci vuole tutti al servizio del suo partito e io gli ho già detto di no. Vedrai che scatenerà l'apocalisse". Qualche sera dopo, partì il bombardamento a tappeto a reti Fininvest unificate per sloggiare il Vecchio dalla direzione del Giornale. Fede, Liguori, Sgarbi (che gli diede del "fascista pedofilo"). "I manganelli catodici", li chiamava Montanelli. All'Epifania, Fede chiese al Tg4 le sue dimissioni. Il direttore rispose con un Controcorrente di tre righe: "Fede ha chiesto le nostre dimissioni. Noi, al posto suo, non potremmo mai chiedere le sue, per il semplice motivo che non l'avremmo mai assunto". L'8 gennaio '94 Berlusconi irruppe, insalutato ospite, nella riunione di redazione del Giornale, che ormai da due anni non era più suo perché la legge Mammì l'aveva costretto a venderlo, anzi a fingere di venderlo (l'aveva girato al fratello Paolo).
E fece capire a noi redattori, in agitazione per i continui tagli di organico, che se volevamo le munizioni avremmo dovuto combattere la sua battaglia, non quella di Montanelli: cioè indossare il kit di Forza Italia. Altrimenti saremmo rimasti alla fame. Un minuto dopo Montanelli, assente e ignaro di tutto, rassegnava le dimissioni dal Giornale che aveva fondato vent'anni prima per creare un nuovo quotidiano, finalmente libero, "con un solo padrone: il lettore". Sulla porta del suo ufficio, si formò una lunga fila di giornalisti che lo imploravano di portarli con sé. Quaranta giorni dopo, il 22 marzo, nasceva la Voce.............. L'Italia precipitava in tutte le classifiche e l'unica
cosa che cresceva, oltre al suo conto in banca e ai suoi processi, erano i suoi capelli e la corruzione. In fondo l'aveva detto, quando la Fininvest era sull'orlo della bancarotta: "Trasformerò l'Italia come le mie aziende". È stato di parola





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venerdì 26 ottobre 2012

L'Eroe dei due Monti
di Marco Travaglio


Ma sì, dai che l'abbiamo capito: Napoletano vorrebbe tanto che Monti restasse al governo per sempre. In fondo l'ha partorito lui. E ora se lo allatta, se lo liscia, se lo pasce come un bel pupone che cresce bene, camminaprecocemente, inizia anche a parlare. Purtroppo c'è un problema: quella maledetta cosa chiamata elezioni. Dove,sventuratamente, la gente vota. E, quel che è peggio, non tutta allo stesso modo: pare che esistano addirittura alcune categorie (lavoratori, licenziati, precari,
disoccupati, esodati, pensionati, tartassati) che non riescono proprio a cogliere gli effetti balsamici dell'Agenda Monti. E, non appena Fornero o Clini aprono bocca, avvertono un fastidioso prurito alle mani. Dunque auspicano qualcosa di un tantino diverso. Napoletano però fa di tutto per convincerli a colpi di moniti che, nel segreto dell'urna, dovranno "tener conto dell'importantissima esperienza Monti" perché "è salutare e inevitabile". Intendiamoci: è legittimo che il presidente Napolitano trovi che le scelte del presidente Napoletano sono meravigliose e non perda occasione per farcelo sapere; ed è legittimo che il cittadino Napolitano auspichi un Monti-bis. Purtroppo il cittadino e il presidente Napolitano sono la stessa persona, e il capo dello Stato, per il suo ruolo di arbitro super partes, non può influenzare le elezioni dicendo chi votare e chi no.
Il 25 aprile profittò della festa della Liberazione per ammonire gl'italiani a "non dar fiato ai demagoghi di turno". Cioè a non votare Grillo alle amministrative. Naturalmente per Grillo, fu un trionfo. Ma il 9 maggio, all'indomani del voto, il Presidente fece sapere di non avere per nulla gradito il voto degli italiani che, incuranti dei suoi moniti, avevano regalato quel po' po' di boom a Cinque Stelle: "Io di boom ricordo solo quello degli anni 60, altri non ne vedo". Ora, in vista delle politiche, dopo aver pressato il Parlamento a cambiare la legge elettorale (il Porcellum del 2005, che naturalmente fa schifo, ma non spetta a lui stabilirlo, anche perché ci ha dormito sopra dal 2006 all'altroieri), ha scritto a Schifani come dev'essere quella nuova: "Evitare il ricorso a incentivi e vincoli tali da indurre a vasti raggruppamenti elettorali di dubbia idoneità a garantire stabilmente il governo". Cioè: niente premio di maggioranza alle coalizioni, altrimenti vince il centrosinistra e a Palazzo Chigi va Bersani o Renzi, mentre lui vuole che non vinca nessuno per poter
richiamare Monti con un bel governassimo tipo l'attuale. Dunque premio di maggioranza al partito vincente che, per quanti voti prenda, non arriverà mai al 50% più uno. Purtroppo, ancora una volta, non spetta a lui stabilire come il Parlamento deve scrivere una legge: lui deve promulgarla o respingerla, ma alla fine; durante, deve tacere. Il Csm, invece, ha la facoltà di dare pareri sulle leggi in materia di giustizia: se però il Csm critica una legge (la presunta anticorruzione) dell'amato Monti, è un'"interferenza nel libero confronto parlamentare". Non stiamo a ricordare le interferenze del Colle nelle indagini sulla trattativa e la smisurata immunità rivendicata nel conflitto di attribuzione alla Consulta: uno scudo spaziale che nemmeno il re di Spagna. Per trovare qualcosa di simile, bisogna retrocedere al Re Sole. Ecco: per imperscrutabili motivi, da qualche mese Napolitano s'è messo in testa di essere il Re Sole. Càpita, ogni tanto, ai presidenti a fine mandato. Il guaio è che chi lo consiglia e circonda, per il suo bene, dovrebbe sommessamente avvertirlo: "Presidente, con tutto il bene che le vogliamo, lei non è il Re Sole". Invece, salvo rare eccezioni (l'ultima, Marco Revelli sul Fatto di ieri), nessuno gli dice nulla. E la nostra Repubblica parlamentare si trasforma giorno dopo giorno in monarchia assoluta. Al passo della Marcia Reale.




*decrescita e speranza...28 ottobre=data cruciale.
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sabato 27 ottobre 2012


Le indecenti evasioni
di Marco Travaglio


La sentenza emessa ieri dal Tribunale di Milano, che ha condannato Silvio Berlusconi a 4 anni di reclusione per frode fiscale, a 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e a 10 milioni di provvisionale all'Agenzia delle Entrate nel processo sui diritti Mediaset, non è -- come vaneggia Angelino Alfano, nientemeno che ex ministro dellaGiustizia, "l'ennesima prova dell'accanimento giudiziario contro Silvio Berlusconi". Semmai è la prova che l'Italia è stata governata per nove anni negli ultimi venti da un evasore fiscale (che ogni tanto condonava le proprie evasioni). Non è nemmeno, con buona pace di Angelino Jolie, "una condanna inaspettata e incomprensibile con sanzioni principali e accessorie iperboliche": chi conosce il processo sa bene che alcune società occulte create da David Mills e usate per drenare fondi neri gonfiando i costi dei film acquistati in America facevano capo personalmente a B. Quanto alle pene, detentive e accessorie, sono ridicole se confrontate con quelle di qualunque altra democrazia, dove gli evasori vengono
sepolti in carcere, mentre da noi siedono al governo, in Parlamento e ai vertici di banche e grandi aziende. Fa sorridere, anzi fa pena il commento del capogruppo pidino Dario Franceschini: "Questo non è oggetto di confronto politico. E comunque, per fortuna, non lo è più". Cioè: il fatto che un tribunale della Repubblica giudichi il più potente parlamentare della Repubblica, per tre volte presidente del Consiglio, colpevole di frode fiscale per 40 milioni di euro (35 volte la cifra che ha portato Fiorito in carcere) con "una naturale capacità a delinquere mostrata nel perseguire il disegno criminoso", non sarebbe un fatto politico. O non lo sarebbe più solo perché B. ha rinunciato a candidarsi a premier, cioè a una carica che -- sondaggi alla mano -- non potrà mai più ricoprire, senza peraltro rinunciare al Parlamento, cioè all'immunità. Cose dell'altro mondo, anzi di questa Italia e di questo tragicomico centrosinistra, che per vent'anni ha dialogato col "delinquente naturale" e ha fatto di tutto per salvarlo dai suoi processi. Solo Di Pietro trova le parole giuste per commentare uno scandalo noto a tutti, che quasi tutti hanno finto, e tuttora fingono, di non vedere (come pure sulla costituzione di parte civile del governo nel processo sulla trattativa Stato-mafia, chiesta a gran voce da Di Pietro, da Fli e dal nostro giornale). Del resto non è la prima volta che B. viene condannato in primo grado: lo era già stato fra il 1997 e il '98 per i finanziamenti illeciti a Craxi nel processo All Iberian (poi lo salvò la prescrizione), per la corruzione della Guardia di Finanza e per il falso in bilancio sui fondi neri di Medusa Cinema (poi fu assolto per insufficienza di
prove). E ora che succede? Nell'immediato, nulla. La mannaia della prescrizione incombe, anche se il Tribunale, depositando le motivazioni assieme al dispositivo dopo sei anni di processo, ha fatto il possibile per scongiurarla: il reato dovrebbe estinguersi nel 2014, dunque c'è tutto il tempo per celebrare gli altri due gradi di giudizio. Se la Cassazione confermasse il verdetto di ieri, B. non andrebbe comunque in carcere: sia perché dai 4 anni vanno detratti i 3 dell'indulto gentilmente offerto nel 2006 dal centrosinistra e appositamente esteso ai reati finanziari; sia perché B. ha più di 70 anni e, in base alla legge ex-Cirielli da lui stesso imposta e mai cancellata dal centrosinistra, a quell'età si va ai domiciliari. Resterebbero però 2 anni di interdizione dai pubblici uffici non coperti da indulto: se la Cassazione confermasse la condanna, B. dovrebbe lasciare il Parlamento e perderebbe, oltre al seggio, l'immunità. Cioè a quanto ha di più caro,
oltre ai soldi rubati a milioni di contribuenti onesti.



*decrescita e speranza...FORZA SICILIA FORZA. siamo tornati all'ora solare.
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Domenica 28 ottobre 2012





C'era un cinese in coma
di Marco Travaglio


Sventuratamente i discepoli dell'Università delle Libertà, ma anche gli infermi del Sudan e i calciatori del Milan devono portare pazienza: il Cainano, o quel che ne resta, non potrà dedicarsi a loro a tempo pieno. Ancora una volta, quando ormai pensava solo agli ospedali, ai gol e all'erudizione dei (e soprattutto delle) giovani, un evento inaspettato -- una sentenza attesa da appena 11 anni -- lo colpisce in quanto ha di più caro -- il portafogli e l'impunità -- e lo costringe, a 76 anni suonati, a tornare a "modernizzare il Paese". Però, beninteso, rinuncia a Palazzo Chigi (cioè al nulla: sta al 15%). Rimesso insieme alla bell'emeglio da truccatori e stuccatori, con la dentiera che fischia, una calotta marron sul capino e robusti tiranti dagli orecchi che gli regalano due simpatici occhi a mandorla facendolo somigliare a un cinese in coma, il pover'ometto ha riunito una corte di fedelissimi plaudenti e di camerieri a mezzo stampa nel bunker di villa Gernetto -- sede dell'Università delle Libertà dove s'insegna furto con scasso, frode fiscale, abigeato e adescamento di minori -- per l'ultimo sequel del cinepanettone "Natale in Brianza". Intanto, e non è cosa da poco, ha dichiarato guerra alla Germania. Poi ha dato il benservito a Monti, che una campagna di stampa diffamatoria insinuava fosse appoggiato anche da lui (le penne rosse gli fecero persino dire: "Monti l'ho inventato io").
Il noto infiltrato Ferrara, sempre sulla notizia, giurava che lui avesse sposato l'Agenda Monti e passato il testimone al Prof. Invece il governo tecnico è servo della Merkel, ha "sospeso la democrazia" e ci ha sprofondati in una "spirale recessiva senza fine" dopo anni di opulenta prosperità: dunque prima se ne va e meglio è, "ora vediamo se levargli subito la fiducia" o lasciarlo marcire ancora un po', tanto è quasi scaduto. Ma non s'azzardi a rimettere il naso fuori, chiusa "la parentesi". Assenti e prevedibilmente attoniti Angelino Jolie e Frattini Dry, che speravano di salvarsi dalla disfatta finale a bordo di Monti, Passera, Marcegaglia e Montezemolo. Presente, ma per sbaglio, l'afasica Gelmini, illuminata dagli sfavillii luciferini delle evabraun de noantri, Brambilla e Santanchè, e del nibelungico Sigfried Ghedini. Molti applausi per le traduzioni colte delle
massime latine ("sui treni c'è sempre un prefetto", "tutto capita nelle sentenze") e soprattutto per la lezione di storia su Hitler che subentrò "alla Repubblica di Weimar nel 1921-23" (era dieci anni dopo, ma fa lo stesso). Ma il pezzo forte è l'economia: "gli spread" sono colpa "dei giornali e di un preciso disegno delle banche tedesche" al soldo della Merkel, che pretendeva financo di non calcolare nel Pil italiano il "sommerso", i fondi neri a cui lui modestamente contribuisce da 30 anni. La nostra, grazie a lui, resta "la seconda economia più solida d'Europa": la gente è ricca sfondata, ma non consuma perché non può spendere più di mille euro in contanti ("terribile barbarie") ed è preda del "regime di polizia tributaria", delle "estorsioni del fisco", della "Magistratocrazia". Ma soprattutto perché le aziende "fanno meno pubblicità ai prodotti di marca". Dunque non resta che concentrarsi sui veri problemi del Paese: tipo il fatto che "non si può più usare il telefono". Ergo urge la separazione "anche fisica" (a filo di spada) dei giudici dai pm, onde evitare "che si passino la Repubblica o il Fatto Quotidiano al bar". E la riforma della Costituzione per abolire, nell'ordine: l'Agenzia delle Entrate (perseguita gli evasori in Porsche), l'Imu (peraltro inventata dal suo governo), il Parlamento, la Corte costituzionale, i piccoli partiti e gli elettori che li votano precludendogli il 51%,
la custodia cautelare e le intercettazioni (almeno per lui), forse il capo dello Stato (fa solo "weekend operosi"), sicuramente la Germania. L'Agenda Morti.





*decrescita e speranza, oggi si vota in Sicilia ed io tifo per POSEIDONE.
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Martedì 30 ottobre 2012

Sorpasso in retromarcia
di Marco Travaglio


Chissà se stavolta Napolitano, magari cambiando apparecchio acustico, ha sentito il boom di Cinquestelle in Sicilia. Sicuramente l'han sentito il Pd e i resti del Pdl,
letteralmente asfaltati da Grillo con una nuotata e un paio di settimane di comizi. Quel gran genio di Lupi si dice "sorpreso" per il risultato siciliano: una sorpresona.
Bersani, lo stesso che un mese fa strillava all'"antipolitica" dei "fascisti del web", ora si accorge che "Grillo c'è, e in modo serio". Purtroppo per lui, M5S c'è e in modo serio (il che non vuol dire sempre condivisibile) da almeno cinque anni. Non è antipolitica, è politica: senza i "grillini", in Sicilia non avrebbe votato poco meno della metà dei siciliani, ma poco più di un terzo. Da oggi in Sicilia e da domani in Italia, M5S costringerà i partiti di destra, di centro e di sinistra, se vogliono governare, ad ammucchiate sempre più inguardabili e innaturali. Solo un partito in estinzione come il Pdl può attribuire il disastro, nell'isola del 61-0 del 2001, alle ultime mattane del Cainano dal bunker (uguali a quelle dell'ultimo ventennio), o viceversa ad Alfano (che non è mai esistito). E solo un simpatico guascone come Crocetta e un povero illuso come Bersani possono usare aggettivi come "storico" e "rivoluzionario" per definire il risultato del duo Pd-Udc. Che, in realtà, è il classico sorpasso in retromarcia: contro un Pdl fermo in panne, bastava una lumaca per superarlo. Nel 2008 il centrodestra di Lombardo si pappava la Sicilia col 65%. Oggi Crocetta diventa governatore col 31%: la stessa percentuale che quattro anni fa portò la Finocchiaro a perdere rovinosamente contro Lombardo. Senza contare che i voti sono molti di meno, visto che allora votò il 66% e domenica ha votato il 47% degli aventi diritto (e nel 53% dei non votanti ci sono anche i voti della mafia, che si astiene e sta a guardare in attesa di una nuova trattativa). Se poi si guarda dentro le coalizioni, si scopre che non crolla solo il Pdl, che nel 2008 riscosse il 33,5% e ora latita al 12. Ma precipita
anche il Pd, sceso in quattro anni dal 22 (Pd+lista civica Finocchiaro) al 13,5. E calano anche l'Udc (dal 12,5 al 10,6) e Sel(dal 4,9 di Rita Borsellino al 3 di Fava, il candidato migliore, escluso per un pasticcio burocratico). Solo l'Idv, paradossalmente, raddoppia i consensi, dall'1,8 al 3,5: ma è una magra consolazione, visto che lo sbarramento per accedere all'Assemblea siciliana è al 5. Dunque di "storico" nel voto siciliano
c'è soltanto il tracollo dei partiti, tutti i partiti: cioè dei responsabili del disastro dell'isola, governata nell'ultimo ventennio prima dal centrodestra e poi dall'inciucio
Micciché-Pd-Fli-Udc, dunque tecnicamente fallita. E ora i padri di quel disastro incalcolabile torneranno al potere, nascosti dietro la faccia pulita e antimafia, ma spregiudicata di Crocetta, che non ha esitato ad allearsi con gli amici di Cuffaro e ora, per governare, dovrà chiedere il permesso o a Micciché (l'amico di Dell'Utri e Lombardo) o a Musumeci (il nerissimo amico di B.), visto che M5S non appoggia nessuno. Né sottobanco né sopra. Una riedizione riveduta e corretta dell'inciucio lombardiano. Siccome la linea della palma tende a salire e la Sicilia anticipa sempre quel che avviene nel resto del Paese, questo è l'antipasto della grande abbuffata che si prepara a Roma. Se il Pd pensa di vincere le prossime elezioni con la cosiddetta "alleanza fra progressisti e moderati", s'illude. A Roma come a Palermo, per sopravvivere, i partiti dovranno mettersi tutti insieme, col bis dell'ammucchiata che ora sostiene Monti. Mandando all'opposizione non solo Grillo e Di Pietro, ma anche la maggioranza degli italiani.




*decrescita e realtà... VIVA I SICILIANI...VIVA POSEIDONE !
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Mercoledì 31 ottobre 2012

Due o tre cose su Di Pietro
di Marco Travaglio


Come ciclicamente gli accade, da quando è un personaggio pubblico, cioè esattamente
da vent'anni, Antonio Di Pietro viene dato per morto. Politicamente, s'intende. Gli capitò nel '94, quando dovette dimettersi da pm per i ricatti della banda B. Poi nel '95, quando subì sei processi a Brescia per una trentina di capi d'imputazione (sempre prosciolto). Poi nel '96 quando si dimise da ministro per le calunnie sull'affaire Pacini Battaglia-D'Adamo. Poi nel 2001, quando la neonata Idv fu estromessa dal centrosinistra e per qualche decimale restò fuori dal Parlamento. Poi ancora quando il figlio Cristiano finì nei guai nell'inchiesta Romeo a Napoli; quando i suoi De Gregorio, Scilipoti e Razzi passarono a miglior partito; quando alcuni ex dipietristi rancorosi lo denunciarono per presunti abusi sui rimborsi elettorali e sull'acquisto di immobili; quando una campagna di stampa insinuò chissà quale retroscena su un invito a cena con alti ufficiali dell'Arma alla presenza di Contrada; quando le presunte rivelazioni dell'ex ambasciatore americano,
ovviamente morto, misero in dubbio la correttezza di Mani Pulite. Ogni volta che finiva
nella polvere, Di Pietro trovava il modo di rialzarsi. Ora siamo all'ennesimo replay, con le indagini sui suoi uomini di punta nelle regioni Lazio, Emilia, Liguria, mentre il centrosinistra lo taglia fuori un'altra volta, Grillo fa man bassa nel suo elettorato più movimentista e Repor t ricicla le accuse degli "ex" sui rimborsi e sulle case. Si rimetterà in piedi anche stavolta, o il vento anti-partiti che soffia impetuoso nel Paese spazzerà via anche il suo? Cominciamo da Report, programma benemerito da tutti apprezzato: domenica sera Di Pietro è apparso in difficoltà, davanti ai microfoni dell'inviata di Milena
Gabanelli. Ma in difficoltà perché? Per scarsa abilità dialettica o perché avesse qualcosa
da nascondere, magari di inedito e inconfessabile? A leggere (per noi, rileggere) le carte che l'altroieri ha messo a disposizione sul suo sito, si direbbe di no: decine di sentenze,
penali e civili, hanno accertato che non un euro di finanziamento pubblico è mai entrato nelle tasche di Di Pietro o della sua famiglia. E nemmeno nelle case, che non sono le 56 che qualche testimone farlocco o vendicativo, già smentito dai giudici, ha voluto accreditare: oggi sono 7 o 8 fra la famiglia Di Pietro, la famiglia della moglie e i due figli. Quanto alla donazione Borletti, risale al 1995, quando Di Pietro era ancora magistrato in aspettativa e imputato a Brescia: fu un lascito personale a un personaggio che la
nobildonna voleva sostenere nella speranza di un suo impegno in politica, non certo un finanziamento a un partito che ancora non esisteva (sarebbe nato tre anni dopo e si sarebbe presentato alle elezioni sei anni dopo, nel 2001, e l'ex pm lo registrò regolarmente alla Camera tra i suoi introiti). Il resto è noto e arcinoto: all'inizio l'Italia dei
Valori era un piccolo movimento "personale", tutto incentrato sulla figura del suo leader, che lo gestiva con un'associazione omonima insieme a persone di sua strettissima fiducia. In un secondo momento cambiò lo statuto per dargli una gestione più collegiale. Decine di giudici hanno già accertato che fu tutto regolare, fatta salva qualche caduta di stile familistica e qualche commistione fra l'entourage del leader e il movimento.
Di Pietro potrebbe anche fermarsi qui: se, in vent'anni di processi, spiate dei servizi segreti al soldo di chi sappiamo, campagne calunniose orchestrate da chi sappiamo che l'hanno vivisezionato e passato mille volte ai raggi X, riciccia fuori sempre la solita minestra, già giudicata infondata e diffamatoria da fior di sentenze, vuol dire che di errori ne ha commessi, ma tutti emendabili, perché il saldo finale rimane positivo.


...continua...

Senza l’Idv non avremmo votato i referendum su nucleare e impunità; i girotondi e i movimenti di società civile non avrebbero avuto sponde nel Palazzo; in Parlamento sarebbe mancata qualunque opposizione all’indulto, agl’inciuci bicamerali e post-bicamerali, alle leggi vergogna di B. e anche a qualcuna di Monti; e certe Procure, come quella di Palermo impegnata nel processo sulla trattativa, sarebbero rimaste sole, o ancor più sole. Senza contare che Di Pietro non ha mai lottizzato la Rai e le Authority. É vero, ha selezionato molto male una parte della sua classe dirigente (l’abbiamo sempre denunciato). Ma quando è finito sotto inchiesta si è sempre dimesso e, quando nei guai giudiziari è finito qualcuno dei suoi, l’ha cacciato. Ora la sorte dell’Idv, fra l’estinzione e il rilancio, è soltanto nelle sue mani. E non dipende dal numero di case di proprietà, ma da quel che farà di qui alle elezioni. Siccome è ormai scontato che si voterà col Porcellum, dunque ancora una volta i segretari di partito nomineranno i propri parlamentari, apra subito i gazebo per le primarie non sulla leadership, ma sui candidati. E nomini un comitato di garanti con De Magistris, Li Gotti, Palomba, Pardi e altri esponenti dell’Idv o indipendenti al di sopra di ogni sospetto. Qualche errore sarà sempre possibile, ma almeno potrà dire di aver fatto tutto il possibile per sbarrare la strada a nuovi Scilipoti, Razzi e Maruccio. Nel prossimo Parlamento, verosimilmente ingovernabile e dunque felicemente costretto all’inciucione sul Monti-bis, ci sarà un gran bisogno di oppositori seri, soprattutto sul tema della legalità. Se saranno soltanto i ragazzi di Grillo o anche gli uomini dell’Idv, dipende solo da lui.




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Le Spalle di MARCO

giovedì 1 novembre 2012



Agenda Galba
di Marco Travaglio


C'era una volta un imperatore, Nerone, che a furia di gozzoviglie s'era convinto di essere il più grande poeta, cantante e soprattutto atleta di tutti i tempi. Così stabilì per legge che avrebbe vinto tutti e quattro i Giochi Panellenici -- Olimpici, Pitici, Istmici e Nemei -- prim'ancora di parteciparvi. La prima legge ad personam, anzi ad Neronem, la fece per spostare la data della 211^ edizione delle Olimpiadi: era fissata nel 65 d.C., ma lui preferiva il 67, dunque la posticipò di due anni. Con la seconda introdusse alcune discipline olimpiche, come gli agoni musicali e teatrali, che non erano previste dal regolamento, ma a lui piacevano tanto. Infine provvide a corrompere gli Ellanodici, gli organizzatori, con un milione di sesterzi. Così, quando salpò per l'Ellade fra cori di giubilo e ammirazione, vinse agevolmente la corona d'ulivo in entrambe le nuove specialità, anche perché gareggiava da solo. La terza, sempre per mancanza di concorrenti, se l'aggiudicò nell'agone araldico. La quarta -- ricorda Svetonio, citato da Marco Vitale in un memorabile articolo -- l'agguantò come auriga: e pazienza se nella corsa era stato sbalzato dalla biga finendo nella polvere, poi era stato raccolto e rimesso in sella da mani amiche, infine aveva dovuto ritirarsi prima del traguardo. Siccome era l'imperatore, una giuria comprata lo proclamò vincitore anche lì. Così nel gennaio del 68 si organizzò un super-trionfo a Roma col titolo di "periodonikes", concesso a chi otteneva l'en plein nei quattro Giochi panellenici, e fu salutato da due ali di folla festante (fra cui spiccavano i senatori che aveva ridotto a ruoli decorativi), troneggiante sul carro del vincitore nella sua veste di porpora con mantello trapuntato d'oro, come "il primo romano dal principio del mondo a conquistare siffatta vittoria". La gente e i senatori gridavano a squarciagola: "Ave o vincitore dei Giochi Olimpici! Augusto, Augusto, Ercole nostro! Unico e solo dal principio dei tempi. Nerone. Voce divina. Beati coloro che hanno la fortuna di ascoltarti". La pagliacciata sputtanò il buon nome dei Giochi panellenici, ma giovò a quello di Nerone: "Lo sfruttamento dei 'successi' olimpici nell'arena politica romana gli riguadagnò quantomeno la simpatia di una parte della popolazione capitolina -- quella priva di senso critico e avido di spettacoli sensazionali. Potevano circolare infinite voci sulle dubbie circostanze delle vittorie sportive dell'imperatore, l'opposizione aristocratica poteva scaldarsi sull'impudente autoincensamento del vincitore per grazia propria: contro l'abile messinscena di un olimpionico in trono, ironia e buon senso non poterono nulla" (Karl Wilhelm Weeber). Ma pochi mesi dopo, causa anche la spaventosa crisi economica, le legioni di Spagna e i pretoriani scaricarono Nerone che, abbandonato da tutti dopo 14 anni di principato e dichiarato dal Senato "nemico del popolo",
si suicidò il 6 giugno. Alla sua morte i senatori decretarono per lui la damnatio memoriae, mentre l'Impero precipitava nel caos tra congiure, corruzione, antipolitica e guerra civile. Il primo successore di Nerone fu Galba, vecchio grand commis noto per la sua crudeltà e la sua esperienza in questioni finanziarie: un tecnico. Per risanare i bilanci sfondati da Nerone, aumentò le tasse al popolo e alle province che non l'avevano subito applaudito. E chiese indietro il milione sganciato da Nerone per corrompere gli Ellanodici, che intanto cancellarono la 211^ edizione dall'albo d'oro. Galba durò appena tre mesi, poi morì ammazzato in una congiura favorita dai pretoriani cui aveva tagliato la diaria. Dopo di lui, nel 69, si avvicendarono altri tre imperatori: Otone (durato tre mesi, poi morto suicida), Vitellio (8 mesi, poi morto ammazzato) e Vespasiano (10 anni).
Ecco, noi siamo a Galba, en attendant Vespasiano.




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